martedì 23 giugno 2009

Ogni singolo respiro, capitolo 6





Un uomo sudato e affannato, senza giacca e con l’aria di essere un pazzo scappato dal manicomio correva a perdifiato tra lo spartitraffico delle due arterie principali di Washington. Molto presto sarebbe stato affiancato da un’auto della polizia e, di certo, il conducente si sarebbe stupito di vedere il distintivo dell’FBI sventolare sotto il suo naso.
Ormai mancava poco. Un svolta a destra e avrebbe raggiunto la clinica. Doveva solo sperare di non svenire.
Arrivò di fronte alla receptionist. Una donna con un’acconciatura assurda lo guardò con tanto d’occhi.
“Mi scusi?”
“Temperance Brennan.” Malgrado non fosse sicura se fosse il caso o meno di dare corda a quell’individuo dall’aspetto disordinato, la curiosità le impose di dare un’occhiata all’elenco dei pazienti. Senza la minima professionalità, né tanto meno tatto, lesse ad alta voce.
“Eccola qui, Brennan, aborto volontario. Ore undici e trenta.”
“Aborto?” da rosso accesso per lo sforzo compiuto il colorito dell’agente divenne pallido.
“Dove si trova?”
“Non so posso darle questa informazione... ”.
Un’assistente venne in suo soccorso. “Claire, hai detto fin troppo a questo signore. Ora ti resta solo di indicargli dove si svolgerà l’intervento.” La donna di colore la redarguì con severità.
A Claire non rimase che ingoiare il boccone amaro. “Tredicesimo piano, sulla destra. Sempre dritti fino in fondo al corridoio.”
Booth volò letteralmente verso gli ascensori.

“Non capisco perché non abbiamo ancora iniziato!”
“Cerca di stare calma, hanno detto che la sala operatoria è stata occupata per un’emergenza improvvisa.”
Brennan stava per perdere la pazienza.
Il dottor Holden venne incontro ai dubbi delle due donne.
“Abbiamo ricoverato questa donna per via dell’incidente sulla settima di Constitution Avenue. Era incinta di ventisei settimane e siamo stati costretti a far nascere il bambino.”
“Se la caverà?”, chiese ansiosa la Montenegro.
“Ora è in terapia intensiva neonatale, ma siamo ottimisti. Ottocentosettanta grammi per un bimbo di così poche settimane è già molto.”
“Possibile che ci sia una sola sala operatoria in questo posto?”. L’impazienza di Temperance aumentava di minuto in minuto.

Il battito cardiaco di Seeley Booth era accelerato all’inverosimile.
Se avesse avuto un minimo dubbio che quello fosse stato un incubo avrebbe cominciato ad urlare ai passanti e, magari, si sarebbe buttato giù dalla finestra per provare a volare.
Ma sapeva fin troppo bene che non si trattava di un sogno.
Bones stava per andare sotto i ferri, sì, ma non c’era nessun tumore da asportare.
Stava per interrompere la gravidanza. Una gravidanza del quale lui non era a conoscenza.
Cam e Angela, Hodgins persino, forse, lui no.
A lui non era stato detto niente.
Si sentì in colpa perché avrebbe dovuto capirlo.
Se non fossi stato troppo occupato a farmi fottere da un presunto killer forse...
Intuì subito che quell’atteggiamento era sbagliato.
Sweets avrebbe avuto da dire la sua in proposito. Ma quello non era il momento di pensare alla terapia. Né all’ex compagno in cella. Né alle illazioni sulla sua presunta innocenza paventate dal dottor Reid.
Ora doveva solo occuparsi di Bones e al bambino che stava gettando nel cassonetto dei rifiuti organici.
Arrivò davanti alla sala operatoria.
Non c’era nessuno.
Troppo tardi, si disse.
Un medico in giacca e cravatta stava per prendere servizio. Vedendolo così affannato gli venne incontro.
“Chi cerca?”
“Brennan, Temperance Brennan.”
“Si tratta di una giovane donna con un’amica mezza asiatica?”
“Sì, sono loro. Angela e Bones! Dove le posso trovare?”
“Immagino sia una questione della massima urgenza. Si rilassi e prenda fiato.”
“Mi dica dove sono, la prego.”
“Le ho viste dirette pochi attimi fa verso il terrazzo.”
“Quale terrazzo?!”
“Alla fine di questo corridoio.”
Il grande terrazzo posto al tredicesimo piano della clinica era stato pensato come luogo di relax per i degenti. Chiuso da un vetro che proteggeva da tutti i possibili sbalzi termici, era addobbato da piante fiorite e da piccoli alberelli da frutta.
A quell’ora brulicava d’infermieri e personale medico vario che si fermava per chiacchierare o per uno spuntino veloce.
Angela e Temperance avevano scelto un angolo appartato, tra un cedro e una panchina occupata da due donne anziane.
Temperance lo vide arrivare e fu subito invasa dall’emozione.
Avrebbe voluto sparire, nascondersi, esiliare. Scappare via verso l’ignoto, magari ficcarsi nella terra. Vedendolo così distrutto capì quanto piccola e meschina fosse stata.
Aveva sbagliato. Aveva sbagliato a non avvisarlo. La luce scura che lesse nei suoi occhi la fece sentire letteralmente uno schifo.
“Booth”, esalò in un gemito.
“Non lo fare” il suo tono di voce era alto. L’attenzione di molti fu per loro.
“Perché sei qui?” Angela si scansò come se volesse togliersi di scena. Ma, in quella scena, nel dramma, c’erano tutti.
“Non lo fare, non lo farai, non ucciderai questo bambino.”
“Ti prego, Booth, tu non puoi...” non le fece finire la frase che se lo ritrovò inginocchiato ai suoi piedi.
Le abbrancò le gambe. Le strinse a sé. Tutta l’emozione per aver scoperto di essere ad un passo dal tornare ad essere padre e al non esserlo più la scaricò in quell’abbraccio.
“Non puoi, non devi, non voglio.” Bones, incapace di essere razionale, lo abbracciò a sua volta. Si chinò su di lui fino a che non furono faccia a faccia. Le fronti slittarono in una carezza quasi violenta, decisa. E poi un sussurro, una voce che mai aveva sentito, rivelò come in una litania: “Ogni singolo respiro, da qui alla fine di tutti i miei respiri. Io ti proteggerò da ogni male. Per sempre se lo vorrai.”
Quella frase la colpì immensamente. Scacciò un singulto con tutta la forza che aveva.
“Non lo so forse è troppo tardi per i progetti a lunga scadenza?”
“Perché?”
“Dov’eri Booth?” chiese indietreggiando come se temesse che la prossimità fisica potesse scalfire la sua convinzione, “Dove sei stato tutto questo tempo?” lo stava accusando. Ma con una dolcezza nella voce da sembrare una dichiarazione d’amore.
“So dove sono ora. So che ti voglio aiutare... ”
“No, non puoi! Non puoi essermi d’aiuto finché non starai bene. Non ricordi l’altra sera? Mi hai rifiutato. E hai fatto bene. Sì, ci ho pensato; avevi ragione tu. Non sei pronto per una relazione, ora.”
“Ma non importa se lo sarò o non lo sarò mai. Io voglio questo bambino. Il tuo bambino è anche mio figlio.”
“E quello che voglio io non è importante?” l’attenzione degli inerti spettatori era totale. Attorno alla coppia si era creato un silenzio quasi magico. Qualcuno si chiese se non si trattasse di una messa inscena. Magari si stava girando un film all’insaputa di tutti, al fine di ottenere maggiore spontaneità da parte dei figuranti. A rompere l’incanto venne l’equipe medica; reclamavano Temperance.
“La sala operatoria è pronta” fece sapere una giovane infermiera con solerzia.
“Non occorre più” rispose Booth alzandosi. La diretta interessata fece altrettanto aggrappandosi alle sue braccia.
“Sono pronta” fece sapere.
Comprendendo quanto la situazione fosse delicata il ginecologo affiancò la sottoposta.
“Si può ancora rimandare, signorina... ”
“No” si affrettò prontamente la donna.
“No, si può rimandare. Dobbiamo parlare.”
“No che non dobbiamo!” l’accesa discussione era solo all’inizio.
L’accesa discussione era solo all’inizio.
Temperance guardò Booth con occhi fiammeggianti: “Tutto questo è patetico e sbagliato!”
“Ma perché vuoi farmi questo? Vuoi uccidere qualcosa di mio.”
“Se è questo il problema dormi sonni tranquilli. Non è tuo.” Lo disse quasi con leggerezza. La sua voce era ferma. Non si accorse del nuovo gelo che cadde su quel terrazzo.
Booth considerò quella frase come una menzogna. Certo che è mio, di chi altri altrimenti?
“Bones... ”
“Hai capito? Ora non insistere.”
“Non mi importerebbe.”
“A sì? Saresti pronto ad occupartene come se fosse tuo. Molto generoso. Il problema è che non lo voglio io. Non me ne voglio occupare io.” Sospirò.
A quel punto Booth si sentì impotente.
Si arrese alla decisione della sua Bones anche se faceva un male cane.
Non ci credeva.
Dormi sonni tranquilli. Non è tuo.
L’aveva detto con troppa enfasi.
La mia Bones non sa proprio mentire, considerò sorridendo amaro.
E ora gli restava solo guardarla andare via, senza poter muovere un dito.
“Sarei pronto a dare la vita per entrambi.”, gridò quando lei fu ad un passo dall’entrare dentro la sala operatoria.


L’anestesista, un giovane uomo rasato piuttosto corpulento era stato tra quelli che avevano assistito alla diatriba in terrazza.
Era anche colui che avrebbe dato il via all’operazione.
Guardò la sua paziente con pena ma anche con stima.
Quella donna solo apparentemente minuta e pallida doveva essere, in realtà, una persona molto forte e coraggiosa.
“Lo sa. A volte la vita ci riserva trame strane.”, annunciò prima di infilare l’ago nella flebo e dare il via all’anestesia.
Temperance non rispose.
Chiuse gli occhi sperando di abbandonarsi quanto prima al sonno artificiale.
“Dico questo dopo aver assistito alla vostra diatriba. Parlo di lei e del suo ragazzo.”
“Non è il mio ragazzo. È un collega.”
“Beh, chiunque lui sia è qualcuno che darebbe la vita per lei e suo figlio. Magari accettandolo anche se non è biologicamente il suo. Ma le ripeto: il destino a volte fa scherzi incomprensibili. Qualcuno lo chiama destino, altri Dio... beh le racconterò un fatto: l’incidente sulla Constitution Avenue. Lo sa da cosa è stato causato? L’autista si è distratto a guardare l’incidente che ieri ha fatto sì che fossero rinvenuti i resti a cui lei stava lavorando”
“Come fa a saperlo...?”. La sua voce stava diventando flebile.
“E quel bambino venuto fuori a soli ventisei settimane? Beh, se il conducente del tir non si fosse distratto andando a tamponare sulla donna incinta, il bambino non sarebbe sopravvissuto. La vita riserva trame strane, ripeto.”
“Non capisco... ”
“Era in sofferenza fetale. La placenta ha smesso all’improvviso di funzionare e sarebbe morto entro poche ore. Ma l’incidente ha dato modo che nascesse anzitempo. Ora ce la farà.”
“Perché mi sta dicendo tutto questo?”. Bones non sapeva se essere infuriata con quell’uomo o se essergli grata. Le sue parole stavano scalfendo la sua determinazione. E questo non era un bene, a suo parere.
“Quello che intendo dire è che il suo ragazzo, o quello che è, ha fatto in tempo a dirle che vuole il bambino perché c’è stato l’incidente, altrimenti a quest’ora lei avrebbe fatto il raschiamento da un pezzo e molto probabilmente ora sarebbe in mensa a mangiare un boccone.”
“Non voglio sentire questi sermoni.”
“Se crede nel destino, qualcosa significa. Dia retta a quell’uomo. Magari non sarà biologicamente il padre ma ha una voglia smisurata di farlo. Di crescere questo piccolino. E, qualsiasi svolta prenderà la vostra relazione, leggerà per sempre nei suoi occhi il risentimento per avergli tolto questa possibilità.”

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