lunedì 23 marzo 2009

Io con un uomo mai capitolo 13


Capitolo 13



Le auto della polizia raggiunsero il caseggiato, dove era sito l’ex istituto. I numerosi graffiti preannunciavano un luogo sinistro. La scuola femminile Bernadette aveva chiuso i battenti da oltre vent’anni.
Brennan e Booth parcheggiarono accanto alle numerose auto della polizia. Il clima di tensione era acutizzato dall’atteggiamento di lui. Aveva scelto di non indossare il giubbotto antiproiettile mandando su tutte le furie la compagna di viaggio.
“Non ti serve a niente fare in Kamikaze.”
“Se vuole pure me, deve spararmi. Non riuscirà a infilarmi nella centrifuga.”
“Ti rendi conto che è una follia?”
“Basta con questa storia del giubbotto, piuttosto cerca di restarne fuori, ti prego. Non sopporterei se dovessi... ”
“Non mi perderai” appoggiò la sua mano su quella forte e maschile. Era tesa e sudata.
“Io mi occuperò di te questa volta. Non lascerò che nessuno ti faccia del male. Se sopravvivrò a tutto questo mi occuperò di te” promise.
Temperance avrebbe voluto domandare: come amica o qualcos’altro? Ma non c’era tempo per i sentimentalismi.
Nella palestra della scuola da tempo nessuno si allenava più. Non si udiva più il fischietto del coach, né le ragazzine che si esercitavano sul trapezio. Desolazione e tenebre la facevano da padrona oltre all’odore agghiacciante.
Booth, capitanando la squadra d’assalto, si addentrò nei meandri di quel territorio ostile.
Immediatamente capirono che c’era qualcosa…qualcosa a cui non erano preparati. Una piccola casa prefabbricata, probabilmente la scena del crimine, occupava per intero lo spogliatoio, e lì, qualcosa di umano.
L’agente Seeley Booth parlò tramite il microfono con i colleghi. Avvicinò la bocca al polso e disse: “C’è qualcuno dentro, siate pronti a sparare se necessario.”
Con un calcio sfondò la -pseudo- porta. Quello che vide era la grottesca rappresentazione di una sala da pranzo abitata da una famiglia. Una becera riproduzione di quello che avrebbe dovuto essere un luogo dove genitori e figli consumano i loro pasti. Il malato di mente si era preoccupato pure di appuntare delle tendine fiorate ad improbabili finestre. La cucina, una cucina vera, con degli elettrodomestici perfettamente funzionanti, era posta a ferro di cavallo, e, in mezzo ad esso il tavolino di marmo dove molto probabilmente il killer scannava le sue vittime.
Booth non riusciva a credere a ciò che gli occhi rivelavano. E nemmeno il resto della squadra.
Sotto il tavolo, legato dalla vita, con le mani penzolanti, c’era Ian Emmerich. Indossava quella che avrebbe dovuto essere una divisa scolastica. Sotto di lui il vomito di qualche giorno, sangue e altri maleodoranti escrementi.
Si chinò per soccorrerlo “Ian, è finita, è tutto a posto” assicurò togliendogli dalla bocca un fazzoletto conficcato quassi fino alla gola.
“Booth, aiutami, il dolore mi sta uccidendo” esalò esprimendosi con difficoltà. Le prima parole articolate dopo chissà quante vessazioni.
“Ti libero subito, aspetta” si alzò richiamando a sé l’attenzione degli altri agenti: “tagliate le corde, svelti” tutti furono intorno al tavolino nel quale erano state fatte a pezzi sei donne e il capitano Osbron.
Booth fece da scudo con il corpo per impedire a Emmerich di cadere nei propri escrementi.
Temperance aiutò il collega a tirarsi fuori da quella posizione impropria. Era felice. Ian Emmerich era vivo. Malandato ma dannatamente vivo. E la vista del suo -quasi fidanzato- sporco di sangue e altre schifezze, la colpì immensamente.
Booth spostò il redivivo da sotto il tavolino sostenendolo. Trascinava a malapena le gambe. Si formò un cordone umano in mezzo al quale, l’unico sopravvissuto al killer della centrifuga, fu fatto passare.


Tutti i telegiornali d’America e non solo, trattarono il caso. La vicenda con esito finale positivo che riguardava l’agente speciale dell’FBI. Persino Rebecca sentì il bisogno di chiamare il padre di suo figlio. Lo trovò piuttosto indaffarato: “Ti richiamo appena ho un minuto di tempo. Tra giornalisti e tutte queste nuove prove che abbiamo sarò molto indaffarato nei prossimi giorni.”
“Sento che questo ti rende felice.”
“Lo sarei se li avessimo presi. Ci sono due killer da acciuffare, questo purtroppo è un fatto.”
“Bentornato Seeley, tutto cuore e distintivo” l’uomo rispose sospirando pesantemente,
“Lo so dove vuoi arrivare. Avevo giurato a Parker che avrei avuto più tempo per lui. E cercherò in tutti i modi di mantenere la promessa”.
Dopo aver chiuso la chiamata si fermò a riflettere, avrebbe preteso un orario più umano che gli consentisse di stare di più con suo figlio. Ma prima doveva acciuffare gli assassini.
Il capitano Ardich lo raggiunse, “Che ci fai qui Booth? Non dovresti essere a casa a riposarti, come ti ho ordinato?”
“Non ce la faccio. Vedere quel posto schifoso ed Emmerich in quelle condizioni mi ha messo addosso tanta di quella adrenalina… ”
“Lo vedo, sembri in trance agonistica.”
“Esatto. È sempre mio il caso?”
“Solo se torni a mangiare qualcosa. Come fai a darci una mano se non si tiene in piedi?” Booth annuì. Da quando era stato ritrovato Ian gli sembrava di respirare di nuovo. Stava uscendo dalla stasi. Ora finalmente l’orizzonte si schiariva. E tornare a sentire l’odore delle cose, il sapore, lo avrebbe reso euforico se solo non ci fosse stato nel suo futuro, l’oscura ombra del killer a minacciare la sua ritrovata tranquillità.


Brennan e la sua squadra visitarono la scena del crimine. Avrebbero studiato gli elementi gentilmente concessi dall’assassino della centrifuga. Hotgins si leccava già i baffi.
Saroyan si raccomandò con i suoi:“Ragazzi fate attenzione, non facciamoli pentire di averci concesso di studiare queste prove.”
Alla fine di una giornata estremamente faticosa, Temperance passò al laboratorio. Ci trovò Booth che l’aspettava.
“Che ci fai qui?”
“Andiamo a cena fuori”
“Festeggiamo il ritorno in vita di Emmerich?”
“Se ti va, principalmente ci vado per mangiare. Voglio uccidermi di colesterolo.”
“Perché questo masochismo?”
“Dicono che sia dimagrito troppo e pure tu non scherzi. Questo look alla Kate Moss non ti dona.”
“Chi è Kate Moss?”
“Una ex modella anoressica ma se preferisci Victoria Adams”
“Sono amiche tue?”
“Esatto. Sono uscito con loro” lei lo squadrò di sottecchi. Dal piglio sornione capì che si stava prendendo gioco di lei.
“Lavoro da undici ore, non ho mangiato praticamente niente di commestibile e mi vieni a dire che sembro una modella anoressica? Se voleva essere un complimento puoi fare di meglio.”
“Ti accompagno a casa così ti metti quel vestito trasparente che usasti per sedurmi, ricordi?”
“Non è mio, è di Angela.”
A quella lui esultò:“Lo sapevo, ti faceva sembrare una prostituta.”
“Lo so, ma Angela diceva che se non mi vestivo così tu non avresti capito il sottinteso.”
“Che volevi essere… amata?”
“Amata” ripeté. Tendendo gli angoli della bocca mise in evidenza le fossette. Booth trovava le sue fossette adorabili e ebbe voglia di baciarla. Di baciarla e altro...
“Va bene, lasciamo stare il vestito trasparente che è meglio. Metti un jeans, metti quello che ti pare ma muoviamoci.”
“Quello nello spogliatoio andrà benissimo. Andiamo in uno di quei postacci per dopolavoristi e nessuno farà caso se non profumo come se fossi appena uscita dalla doccia.”
“Così mi piaci Bones” le diede una pacca sulla spalla che la fece barcollare.


La coppia si recò nella pizzeria preferita dall’agente. Non fecero in tempo ad ordinare che il telefonino di lei squillò.
“Accidenti, è il laboratorio” confessò sconsolata.
“Niente da fare signorina, il suo orario di lavoro è terminato.”
“Fammi rispondere almeno” e così fece. A piè telefonata si alzò con aria delusa.
“Dove pensi di andare?”
“Credo sia importante Booth. Vogliono i risultati prima di domani.”
“Non capisco, le antropologhe forensi non mangiano e non dormono come i comuni mortali?”
“Hanno appena ricevuto l’abbigliamento che indossava Ian quando è stato trovato.”
“Mio Dio. Quell’orribile divisa scolastica” dopo averci pensato pochi secondi, esalò: “Vengo con te.”
“Non occorre.”
“Voglio essere di aiuto.”
“No, devi mangiare e poi devi andare da lui.”
Quell’affermazione fece calare un velo sul suo umore brillante: “Lo so, starai pensando che lo sto evitando.”
“Posso capirlo. Sei stato talmente provato da questa storia che ora sarebbe comprensibile che volessi tirartene fuori.”
“Proprio tu ti metti ad analizzarmi?”
“Non volevo analizzarti scusa. Quello che intendo farti capire è che non ha senso che tu venga ad assistere mentre esaminiamo quei reperti.”
“Ma io... ”
“Riflettici bene, dove preferisci essere nelle prossime ore, Booth: al Jeffersonian con me e gli altri che controlliamo cosa ci dice dell’assassino la divisa o al capezzale del tuo amico?”
Lo sguardo di lui si fece serio.
“Hai ragione, Bones, come sempre”.
Prima di lasciargli ordinare la sua pizza gli posò un bacio sulla fronte.
“Porta questo a Ian da parte mia” lui le sorrise e quando la vide al di là della vetrata, le lanciò un bacio teatrale.


Booth non era sicuro di essere sazio ma, via via che i minuti passavano, i sensi di colpa per non aver ancora raggiunto Ian in ospedale superarono tutto il resto. Rinunciò al dolce e si affrettò a pagare il conto.
Arrivato davanti al Policlinico visse un deja vu. Tornò a quella maledetta sera nella quale l’amico era stato ricoverato per un mancamento.
Camminò fino a raggiungere l’ascensore.
Se non avessi cenato nemmeno questa sera avrebbero dovuto farmi una flebo, rifletté.
“Non è orario di visite” intimò la Caposala quando lo vide entrare diretto nella stanza di Emmerich.
Rispose mostrando il distintivo. Lei annuì.
“Ce ne mancava un altro” spiattellò ad una collega non curandosi di essere udita o meno.
Una volta davanti alla porta, fu salutato dai colleghi che sorvegliavano l’accesso:
“Ragazzi, fate una pausa, sto io non lui”
“Ci andiamo a prendere da bere John?”
“Cazzo Matt, siamo in servizio” lo redarguì.
“Intendevo una Pepsi” bisticciando amichevolmente, si allontanarono da lui. Booth li seguì con lo sguardo sorridendo. Bussò per palesare la sua presenza.
“Emmerich, sono Booth. Ti sono venuto a trovare” entrò, “non ho trovato fiorai aperti dunque accontentati di me” osservò l’ambiente. L’unico letto della stanza era sfatto, ma del degente non c’era traccia.

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