martedì 8 settembre 2009

Ogni singolo respiro doppia puntata






Temperance era davvero contenta di avere un’amica fidata come Angela.
Dopo il malessere accusato, avevano trascorso buona parte della mattina al bar. L’antropologa si era confidata con lei. Aveva anche pianto. Certo, gli ormoni della gravidanza contribuivano alla sua emotività ma non era solo quella la causa.
Era anche la consapevolezza di aver vissuto un evento paranormale.
“Capisci? Quello che sembrava uno stupido sogno si sta rivelando molto di più. Se almeno conoscessimo l’identità di quell’uomo!”
“Fidati piccola, ce la faremo. Questa cosa passerà ai federali e anche Booth ci darà una grossa mano.”
“Booth è troppo preso dalla questione Emmerich”. Temperance si accigliò come se un pensiero la cogliesse impreparata. “Stamattina c’è l’incontro!”
“Cristo, poverino, sarà davvero penoso!”
“Esatto. E dopo un momento così triste, ecco che arrivo io con i miei fantasmi.”
“Lui ti crederà perché concepisce l’idea degli angeli. Sì, sono certa che si tratta di quello. Di un angelo.” Le strinse la mano.
Brennan la guardò con diffidenza, uno sguardo che intendeva qualcosa tipo: ‘davvero credi che mi berrò la sciocchezza dell’angelo?’.
La stessa Montenegro, comunque, non ambiva a essere creduta. Se Temperance si fosse messa a parlare seriamente di spiriti e creature celesti allora sì che le sue certezze sarebbero vacillate di colpo. In quegli ultimi sei mesi aveva appreso che un uomo dagli spiccati istinti eterosessuali e dall’indubbia virilità poteva amare e farsi amare da un maschio altrettanto virile. La sua migliore amica era incinta e scopriva di poter intercedere con gli spiriti. Ci mancava solo che Hodgins le proponesse di sposarsi e di stabilirsi nella villa dei suoi e vivere da ricchi a sbafo di suo padre, e il quadro sarebbe stato completo!

Wendy Collehn era sempre più affascinata da Booth.
Quella che era iniziata come una semplice attrazione fisica e curiosità sessuale si stava trasformando in cotta bella e buona!
Le era sufficiente guardarlo due secondi per iniziare a sciogliersi in pensieri romantici, venati di erotismo.
Razionalmente sapeva che non era possibile. Tra l’altro non si erano affatto presi, empaticamente, e di questo si rammaricava.
Con Ian era stato diverso. Lui la trattava con rispetto e simpatia. Dopo tutto era la sua ancora di salvezza. L’unico appiglio con il mondo esterno.
Arrivarono davanti alla clinica.
“Non deve sentirsi in ansia. Ian ha la scorza dura, questo dovrebbe saperlo.”
“Lo so, ma non è solo quello...”
“E cosa, allora?”
Booth si pentì di aver dato il via a quel dialogo. Quella rivelazione era del tutto inappropriata. Si chiuse a riccio fino a quando arrivarono al pronto soccorso.
Ian Emmerich era disteso in un giaciglio provvisorio. Non era stato ricoverato.
Due agenti di picchetto sorvegliavano la sua eventuale fuga.
Booth e Wendy furono condotti al suo capezzale. Lo guardarono pieni di pena.
L’agente deglutì. Non riusciva nemmeno a riconoscerlo, e d’altronde era coperto fino al collo.
“Forse è meglio che aspetti fuori”, disse la giovane donna.
Booth fece un cenno vago con la testa. Si avvicinò alla lettiga e sporse la testa verso Ian.
Appariva talmente indifeso! L’esatto contrario del criminale assetato di sangue di cui parlavano i telegiornali.
Vederlo così gli fece venire alla mente il precedente ricovero.
Ma questa era un’altra storia. Non c’era nessun finto attacco di panico. Stavolta le tracce del malessere c’erano tutte.
Era dimagrito parecchio. Le ossa del viso erano talmente sporgenti palesavano una dieta povera di tutto.
“Ian, mi senti?”, sussurrò.
Non ricevendo risposta lo sfiorò. Tremò quando i polpastrelli entrarono in contatto con la guancia. Era caldo.
A quel tocco, il malato si mosse attraverso le coperte.
“Ho tanto freddo”, rispose, rabbrividendo.
“Lo so. Hai un infezione. E la febbre alta… scotti di brutto.”
Solo a quel punto Ian riconobbe la presenza dell’uomo che amava.
Spalancò gli occhi.
“Booth, sei tu? Non lo sto sognando, vero? Che ci fai qui?”
“No, non lo stai sognando”. Booth provò a sorridere. Era emozionato. Non aveva considerato di sentirsi così. Voleva abbracciarlo ma si trattenne.
La consapevolezza di desiderarlo tanto lo sconvolgeva.
“Sai almeno dove sei?”, chiese, sporgendosi sopra di lui ancora di più.
Sapeva di alcol etilico e sudore.
“Non proprio.”
“Al pronto soccorso. Dicono che ti sei beccato un’infezione.”
“Come no...”, rispose sarcastico.
Booth intuì subito che c’era qualcosa che non andava e decise che avrebbe appurato in seguito.
“Che sta succedendo?”, chiese con aria preoccupata.
“Booth, tu chiedi a me cosa sta succedendo?”
Quanti significati in una frase sola!
Anche se la voce era bassa e poco incisiva.
Anche se era ridotto pelle e ossa.
Anche se era tutto raggomitolato sotto le coperte e non sembrava lo stesso uomo con il quale era stato insieme.
Malgrado tutto questo Booth riconobbe il suo dannato Profiler!
E la nostalgia per quello che erano stati e per quello che avrebbero potuto essere abbatté tutte le sue forze.
Lo abbracciò.
Ian si sentì strano. Gli sembrava che qualcuno non lo coccolasse da anni. E l’ultimo che lo aveva fatto, con tanto amore, era stato proprio lui.
“Vorrei non essere qui, Booth. Vorrei non averti mai lasciato”, esalò, la bocca vicinissima all’orecchio di lui.
“Anch’io. Ma vorrei soprattutto che fossi tornato con me e Parker da. Culpeper ” rispose.
Ian gli baciò una guancia.
“Ti giuro che non penso ad altro. Non esiste giorno, ora, minuto maledetto che non pensi a questo!”. Sospirò continuando amaramente. “Magari potessi girare le lancette del tempo e tornare a prima di svegliarmi, quella mattina. Quando ero accanto a te...”. Mentre parlava si aggrappò ancora di più a lui. Forse così si sarebbe salvato. Forse Booth l’avrebbe portato via e si sarebbe occupato di lui. Era bello lasciarsi andare a quelle fantasie.
“Non parliamo di questo adesso. Quando starai meglio mi racconterai ogni cosa. Quello che mi preme sapere ora è il perché sei in ospedale. Qualcuno ti ha fatto del male?”
“E anche se fosse? Non è quello che merito? Non pensano tutti che io sia il killer della centrifuga o il suo aiutante?”
“Non occorre il sarcasmo ora. Dimmi come stanno le cose. Se posso aiutarti...”
“La sola cosa che mi aiuterebbe, stallone, è sapere che tu credi a me. Alla mia innocenza.”
“In realtà sto lottando per convincermi del contrario. Forse accettandoti per quello che sei riuscirei anche ad accettare il fatto che ti trovi rinchiuso in un carcere federale invece che...”. Si interruppe.
“Invece che tra le tue braccia? Volevi dire questo?”, chiese Ian.
Probabilmente era così, ma l’imbarazzo era totale.
Tra l’altro, non erano nemmeno soli. Una delle due guardie era rimasta dentro a vigilare che non combinassero nulla di anomalo. E li guardava disgustato.
“Booth, mi dispiace”, sussurrò Ian, come colto da un raptus improvviso di sensi di colpa.
“Che vuoi dire con ‘mi dispiace’?”
“Per quello che ti sto facendo passare… io… non avrei voluto.”
“Ian, per piacere, prova a spiegarmi cosa è successo... il motivo per il quale sei stato catturato”, chiese Booth, abbassando di parecchio il tono della voce.
“Io non ho ucciso quella donna. Non sapevo niente dei traffici di Kelly.”
“Ma sulla tua divisa ospedaliera c’è il suo DNA!”
“Non ha senso”, disse Ian, facendosi pensieroso.
“Allora cosa?”
“Non ha senso Booth, tutto non ha senso. Mi conosci, pensi che ucciderei povere madri di famiglia?”
“Il pubblico ministero ha elementi a sufficienza per condannare entrambi. Dunque non ha importanza quello che penso io, purtroppo.”
“Invece per me ce l’ha eccome! Se tu mi credi... se tu mi credi...”, incespicò nelle parole. Lo guardò fisso negli occhi: “Credi nella mia innocenza, Booth? Devi dirmelo!”.
Era una domanda fatale, che faceva capire come, al di là di tutto, fosse quella la questione per lui più importante.
“Possibile che intuitivo come sei tu non l’abbia capito? Se avessi davvero accettato la tua colpevolezza, ora non sarei qui”, ammise Booth, stringendogli la mano sudata e calda.
“Grazie, è molto importante per me”.
Ian si sentiva felice. Accennò un vago sorriso.
Booth fissò per qualche attimo la mano che stava stringendo. Subito lo sguardo focalizzò le ecchimosi lungo il braccio.“Che sono questi segni?”
Il malato restò in silenzio e sgranò gli occhi simile ad una volpe incappata nella tagliola.
“Non guardarmi così. Non ho mai voluto farti pena, Booth. È per questo che non ti ho parlato del... del mio passato oscuro.” Tirò su con il naso. “Mi è sempre piaciuto giocare a fare il superuomo, quello che non ha bisogno di niente. Con te era facile… non hai mai avuto il dubbio che fosse tutta una montatura.”
“Hai sbagliato, avresti dovuto fidarti di me. So della tua infanzia segnata dagli abusi. Pensi che sia cambiato qualcosa?”
“Che importanza ha a questo punto?”
“Tu continui a farlo, questo è il problema. Continui a non aprirti con me. Dimmi chi ti ha causato queste ferite!”
“Booth io...”
“Dimmelo!”. Alzò la voce.
Il secondino redarguì l’agente intimandogli di parlare piano.
“Vuoi sapere perché ti ho nascosto tutto? Bene, te lo dico: volevo farmi amare da te per quello che sono, non per pietà, non volevo che pensassi a me come a un disadattato, l’asociale che vedeva la tua collega.”
“Ora che c’entra Bones?”
“Lo sai, lei è più scaltra di te e me messi insieme. Aveva capito che in me c’era qualcosa che non andava e ora tutto torna. Io ho un amico fuori di testa con un’infanzia traumatica. Io lo aiuto a rapire le donne e ad inscenare le sue macabre famiglie. Tutti pensano questo di me, ora.”
“Lo penserà anche la giuria.”
“Me ne fotto della giuria. Se tu mi credi, non mi importa di quello che pensano gli altri.”
“Ma Cristo Ian! A chi vuoi che interessi il mio parere? Sono il tuo amante, loro vedranno solo questo, te ne rendi conto?”
“Se tu mi credi, mi tirerai fuori. Dimostrerai che sono innocente.”


Il colloquio con Ian Emmerich durò un’ora circa.
Il dottore venne a controllare le condizioni del malato speciale. Constatò che la febbre era lievemente diminuita.
Prima di tornare nel mondo dei sani e liberi, Booth lanciò un lungo sguardo a Ian.
Gli faceva una pena immensa. Ora come mai prima era convinto che qualcosa non andava. Ora più che mai voleva che fosse fatta giustizia! Ad interrompere quel pensiero giunse lo squillo del telefono.
“Booth sono io, dove sei?”
“Bones, Ian è stato ricoverato.”
“Ricoverato?”
“Già, pare che ultimamente debba frequentare per forza di cose gli ospedali!”
“Ma cosa è successo?”
“Ti spiego appena arrivo, sei al Jeffersonian giusto?”
“Sì, anch’io ti dovrei parlare...”
“Tranquilla. Sto arrivando.”
Si congedò da Wendy piuttosto sbrigativamente. Una volta giunto di fronte al laboratorio scoprì che lei lo stava aspettando.
“Come mai sei qui?”
“Là dentro l’aria si era fatta irrespirabile”. Lo abbracciò.
Lui la strinse a sé senza sentirsi sporco o aver paura di inquinarla.
Eppure pochi minuti prima era stato tra le braccia di un probabile assassino!
“Piccola, stai di nuovo male?”
“Booth, ho bisogno del tuo aiuto.”
“Lo sai che praticamente vivo per questo”, le disse, alzandole il mento con due dita.
Lei sorrise sciogliendosi un po’. Sembrava tutto più semplice quando lui le era vicino. Persino i fantasmi sembravano meno minacciosi.
“Ti ricordi l’anestesista con cui pensavo di aver parlato? Quello che te e Angela definite l’angelo?”
“Certo che mi ricordo.”
“Beh, l’angelo e il morto nel muro sono la stessa persona.”



Capitolo 13


Astuto come sempre, Ian Emmerich era riuscito a deviare il discorso, evitando di dire la verità sul perché le sue braccia fossero ridotte a un colabrodo.
No, di certo non avrebbe permesso che Booth si mettesse a lottare per il suo benessere in prigione.
Se c’era una battaglia che avrebbe dovuto intraprendere era quella che lo conduceva alla scarcerazione.
Dimostrare la sua innocenza, dimostrare la sua estraneità agli omicidi compiuti dal killer e dal suo efferato complice.
Appena due ore dopo che Booth lo ebbe lasciato in balia delle sue emozioni, il dottore venne a decretare la sua ‘completa guarigione’.
In realtà non si sentiva ancora in perfetta forma ma era quello che succedeva ai detenuti.
Non importava che potessero avere eventuali complicazioni.
Una volta tornato in cella, Ian barcollò alla ricerca della sua branda. Carlos, vedendolo sul punto di svenire, lo sorresse per un braccio.
“Sei tornato, amico. Ma non mi sembri ancora...”.
“No, sto benone” lo interruppe.
Prese posto nella sua cuccetta. Sospirò a lungo.
Doveva metabolizzare l’incontro con Booth. Era ancora scosso.
Aveva da dirgli tante di quelle cose, non gliene era venuta in mente una. Ci avrebbe tenuto sopratutto a ricordargli che lo amava. Nemmeno di questo era stato capace.
Senza pensare a ciò che diceva, iniziò a parlare: “Carlos, sei mai stato innamorato?”
L’altro lo guardò perplesso. “Credo di non averne avuto il tempo. Ero troppo occupato a scappare da quelli della narcotici. Perché, tu si?”.
Era un po’ inconsueto come dialogo. Soprattutto tra detenuti. Mai prima di allora Ian si era mostrato così propenso a parlare di sé.
“Io sì. Sono innamorato da stare male. Non so se riesco a spiegare cosa significa.”
“Immagino! Tu sei qui in cella mentre lei è là fuori, magari con un altro”, ironizzò.
“In effetti è tutto giusto tranne che ‘lui’ starà tra le braccia di ‘un’altra’. Ma quello è il minore dei problemi.”
Il galeotto lo guardò stupito. Emmerich sembrava tante cose ma di certo non assomigliava a nessun omosessuale che aveva incontrato nella sua vita.
“Sei una checca? Non l’avrei mai detto.”
“Non so se devo ringraziarti o spaccarti il muso”, rispose, sogghignando. “Credo di non avere la forza di fare nessuna delle due cose.”
“E quale sarebbe il problema maggiore, appurato che non te ne frega un cazzo se lui si sbatte lei, a quanto ho capito.”
Ian sospirò guardando il soffitto: “Non so se ho più paura che non mi creda o che mi creda e provi pena per me. Sa dei maltrattamenti che ho subito da bambino. Non voglio che veda solo quello. Un moccioso impaurito e torturato.”
Il piglio di Carlos si fece serio. “Amico, mi dispiace. E non lo dico perché mi fai pena. Sono sincero.”
“Lo so, amico. Ma non è che mi freghi di fare pena a te. Se mi sono spiegato...”
“E lui è un tuo collega fottuto agente FBI?”
“Hai indovinato.”
“Diavolo, pensavo che queste storie di finocchi riguardassero solo il modo dello spettacolo. Invece...”
“Riguardano anche noi cazzuti agenti FBI”, ironizzò sorridendo.
Un sorriso vero.
Finalmente cominciava a metabolizzare i lati positivi dell’incontro con Booth.

Booth continuava a fissarla senza parlare.
Non capiva. O, meglio, quello che aveva compreso lo sconcertava a dir poco.
“Vorresti dire che avete scoperto a chi appartengono i resti rinvenuti nel muro?”
“Angela è riuscita a ricostruire l’immagine con l’ausilio dell’Angelator ma l’identità resta un mistero. Per arrivare anche a quella dovete darci una mano.”
“Bones, non voglio fare io la parte di quello razionale, ma vedrai che c’è una spiegazione a tutto questo”.
“E se non ci fosse? Se io continuassi a parlare con gli spiriti dei defunti? Che razza di madre sarei?” Booth la guardò sbigottito. Sorpreso ma felice.
“È la prima volta che accenni a questo! Bones, tu sarai madre! È semplicemente magnifico.”
“Dici?”, lo guardò incerta. “Pensi che sarò una buona madre?”
“La migliore! Di certo sei la migliore in tantissime cose. Non oso pensare, con la tua intelligenza e la mia bellezza, a che spettacolo verrà fuori.”
Lei sorrise accettando la provocazione. “O con la mia bellezza e la tua intelligenza. Una cheerleader scatenata o un coscienzioso scienziato?”
“Sei più tranquilla, ora?”, le chiese lui, serio.
“Sono spaventata da tutto questo. Dalle visioni, dalla gravidanza, da Emmerich!”, ammise. “Andiamo a casa e parleremo anche di lui.”.


Tutte le volte che Wendy andava a pranzo con la sua superiore, Carol Miller, si sentiva inadeguata. Non tanto perché fosse la socia di maggioranza della Miller&Casper, la società che le dava lavoro. Nemmeno per il fatto che fosse più affascinante di lei.
No, a spaventarla era la sua infinita cultura.
Conosceva ogni cavillo, ogni emendamento, tutto ciò che c’era da sapere per affrontare la giura e il giudice.
Impossibile non sentirsi inadeguata.
Il terrazzo dove si trovavano si affacciava su di un’elegante giardino.
Carol sceglieva sempre luoghi all’aperto dove mangiare anche se si nutriva pochissimo.
Era magra e pallida. Sembrava una carta velina con le unghie laccate!
Un felino pericoloso pronto ad avventarsi sulla sua preda.
Fumava, ma non sopportava l’odore del fumo, per questo sceglieva sempre luoghi all’aperto.
“Finalmente Wendy.”
“Mi perdoni. Emmerich è stato ricoverato, siamo stati costretti a raggiungerlo all’ospedale.”
“Ah sì?”, domandò con tono freddo. “E cosa ha avuto? Preso freddo al fresco?”
Wendy rise anche più del dovuto. Probabilmente era l’unica a trovare le battute ciniche dell’avvocato divertenti.
“Mi scusi, questa era proprio buona! No, si è beccato una specie d’infezione.”
Carol spense la sigaretta. “Ho ordinato anche per te.”
“Benissimo, io mangio tutto!”
“Dovresti metterti a dieta.”
“Non serve, tanto non ingrasso né dimagrisco. Da una parte è una fortuna sfacciata.”
“Se lo dici tu. Piuttosto dimmi: Booth come ha reagito? Ha pianto? Si è buttato tra le sue braccia?”
Wendy finì di sgranocchiare un cracker.
“Non ero con loro ma da quel che ho potuto sbirciare il suo comportamento è stato contenuto, oserei dire… un virile trattenersi.”
“Virile trattenersi? Tipico degli agenti FBI.”
“Non sembra affatto gay e poi è talmente affascinante!”
La donna più adulta sospirò, segno che stava per arrivare la ramanzina: “Wendy, sei fuori? Seeley Booth non è omosessuale. Il nostro assistito l’ha traviato. Gli ha fatto il lavaggio del cervello. È quello che dovrei fare io a te”, blaterò con voce annoiata fingendo di mangiare una patatina.
“Oh!” la sottoposta arrossì. Il suo volto aveva assunto una nuance più accesa del suo rossetto.
“Ora capisco. Ma si resta così machi anche dopo aver fatto sesso con un uomo?”
“E che vuoi che ne sappia?”.
Wendy era avvilita. Se Booth non era omosessuale e lei aveva dato per scontato che lo fosse, questo significava davvero molto.
Probabilmente i suoi problemi con gli uomini erano più gravi di quanto credesse.
Come ho fatto a non capirlo? Si disse.
E poi avrebbe potuto essere diversa con lui, più aperta. Magari avrebbe potuto attaccare bottone flirtando un po’.
“Non starai pensando di portartelo a letto?”.
La ragazza si sentì minacciata. Ma sono così scontata?
“Non è certamente un suo problema questo”, osò.
Un’impertinenza bella e buona.
Ma Carol amava chi aveva le palle e fu stupita dal peggiore elemento che aveva nella sua scuderia. Sì. Perché Wendy era stata scelta proprio per questo. Era inadeguata.
Emmerich sta bene dove sta. E se c’è qualcuno che può consolare Booth non sei certo tu, Wendy cara.
“Ascolta, sgualdrinella. Se vuoi sollazzarti il clitoride sono affari tuoi, ma se lo fai con l’amante di un mio cliente che quasi certamente sarà chiamato sul banco degli imputati, sono affari miei.”
“Ha ragione. Tra l’altro non è certo mia intenzione...”
“Metterti in una situazione ridicola”, finì la frase l’altra, sprezzante.
Prima di ultimare il pasto, urlò al cameriere: “Venga a togliere di mezzo questo schifo!”, e indicò i mozziconi di sigaretta ammonticchiati nel posacenere. Gli stessi da lei prodotti.

Un volta a casa, Booth si occupò di Brennan in modo esemplare. Le preparò il bagno con tanto di sali e candele profumate.
Dopo averla avvolta in un soffice accappatoio la trascinò in cucina.
Le fece trovare i suoi dolcetti preferiti che però lei evitò di mangiare per via dell’acidità.
Ordinò persino la cena da Mister Nicky, che negli ultimi tempi risultava in cima alla classifica dei ristoranti take-away preferiti dall’antropologa.
“Pensi di fare così fino alla fine?”, domandò la donna accucciandosi sul sofà.
“Ti massaggerò i piedi quando non ce la farai più. Farò tutto quello che occorre per la madre di mio figlio.”
“Ho capito. Pensavo lo facessi perché mi amavi.”
“Ma certo che ti amo, Bones. Non essere sciocca.”
“Ed Emmerich? Ami anche lui, no? È di questo che dobbiamo parlare.”
Booth la guardò serio restando in silenzio.

1 commento:

Alex G. ha detto...

Wow che incontro commovente, li adoro questi due. Booth è davvero in ansia, sec me lo ama sul serio.
Continua, ti prego, voglio una bella scena hot