martedì 26 maggio 2009

Ogni singolo respiro. Prologo e capitolo 1


AUTORE: giusy
GENERE: Noir, B&B, comedy, slash, romance, NC17
TIMELINE: conseguente a "Io con un uomo, mai" cioè dopo l'arresto di Emmerich
WARNING: PG/13 sempre e alcune volte NC 17 ma sarà specificato. Slash quando occorre.
SPOLIER: Nessuno
PAIRING: B&B e I&B e non solo.
DISCLAIMER: Questo è un sequel de "Io con un uomo, mai". Alcuni personaggi sono di Bones altri di mia invenzione.
Il Crossover con "Criminal Minds" s'intende la partecipazione di uno dei personaggi principali della serie senza approfondimenti particolari alla serie stessa.



Prologo

Ogni
singolo
respiro
da qui alla fine di tutti i miei respiri.
Io ti proteggerò da ogni male.
Per sempre se lo vorrai...


Così le aveva confessato Booth pochi prima che l’infermiera la andasse a chiamare per condurla in sala operatoria. Era stato tutto piuttosto eclatante e malinconico. Gli si era lanciato addosso, in ginocchio. Le persone presenti nella struttura si erano girate verso di loro per capire cosa stesse succedendo. Qualcuno si domandò se si trattasse di una candid camera o qualcosa del genere.
Temperance aveva inciso quella parole nella sua mente e nel suo cuore.
Era passato un mese oramai dalla cattura del killer e del suo complice. L’assassino della centrifuga e Ian Emmerich erano reclusi in un carcere federale di massima sicurezza. Questo avrebbe dovuto contribuire a far stare tutti meglio.
Perché allora continuo a sentirmi uno schifo? Rifletté, girando nervosamente il cucchiaio nella minestra.
Aveva anche la febbre. Il seno le faceva un male cane. E da tre giorni non aveva notizie di Booth.
Ufficialmente era partito. Non si sa di preciso dove, avevano fatto sapere quelli dell’FBI. A lei aveva lasciato un malinconico biglietto.
Cercami solo se strettamente necessario.
Vi amo.

Amore, certo. Amava anche lui o lei, o quello che era o, meglio, che sarebbe stato. Quella creatura indesiderata. Il mostro, il cancro, come l’aveva definito più volte tra i fastidi, le nausee, e tutto il resto.
Sbuffò. La minestra finì dentro il cestino della spazzatura.
Considerò se fosse il caso di provare a scrivere, o finire, come sempre, tra le lenzuola a schiacciare un pisolino.
Da quando era incinta Temperance Brennan non faceva altro che dormire.
E sognare.
A volte incubi. Altre, sogni indicibilmente belli. Ma quando si svegliava, spesso in un cuscino bagnato di sudore, il ricordo di quello che stava passando il suo amico, amante, collega, giungeva a schiacciarla.
Se almeno avesse creduto nella terapia psicologica forse... ma non si illudeva. Booth era spacciato. Come lei, come il figlio che portava in grembo. Come Ian Emmerich.
Si sdraiò nel suo letto. Abbassò le tapparelle con il pulsante posto accanto al comodino.
Ben presto arrivò il sonno e, con esso, gli incubi.








Capitolo uno


Poco meno di un mese prima.


“Come ti senti, chèrie...?”
“Come vuoi che mi senta!”.
Il procuratore Caroline Julian era realmente preoccupata per lui. Una delle poche persone che avrebbe voluto con tutto il cuore aiutarlo. Ma l’umore dell’agente Seeley Booth non era dei migliori, come sempre, da qualche tempo a quella parte. E questo non gli consentiva di ricevere l’appoggio di qualcuno.
Appena tornato a Washington aveva provato a tenere duro. Ian Emmerich, l’uomo con il quale aveva trascorso una notte d’amore, era accusato di complicità con il killer della centrifuga. L’assassino di cui si occupavano entrambi da mesi.
Aveva cercato riparo tra le braccia di suo figlio. Ascoltando le parole di autentica ingenuità che provavano a difendere l’indifendibile.
Non può essere lui quello che fa male alle mamme, lui è buono papà. Ora vai dai poliziotti e digli di lascarlo andare,
aveva detto con la dolcezza disarmante dei suoi sette anni.
Ci sono prove che dicono il contrario. Ian non è buono, è cattivo. Almeno finché qualcuno non dimostra il contrario, rispose.
Lui stesso non ne era convinto affatto. Anche se in cuor suo sperava, contro ogni ragionevole speranza, che tutto l’impianto accusatorio nei confronti del profiler si sarebbe sgonfiato come un palloncino pieno d’aria.
Il ritorno alla normalità fu la tragedia peggiore. Booth non voleva dare spiegazioni. A Rebecca, ai colleghi, ai giornalisti! Da questi ultimi, soprattutto, era disgustato. Si sarebbero buttati su quella storia come gabbiani su sardine. Con la stessa rapacità. E non conoscono la parte più scabrosa... considerò cercando di buttare giù un plum-cake. Doveva farcela a risalire la china, o provarci almeno. Per suo figlio, per la sua carriera, per Bones.
La prima volta che la vide dopo la cattura di Emmerich fu molto toccante. Per loro due ma anche per tutti gli altri. Il Jeffersonian era immerso in un mutismo che rimbombava più di una deflagrazione.
Booth camminò con passo malfermo fino a raggiungerla. Gli occhi grandi di Brennan lo scrutarono senza giudicarlo, senza maltrattarlo, senza denigrarlo, come invece avevano fatto molti altri. Ma accogliendolo come solo due braccia spalancate sanno fare.
“Booth, mi dispiace tanto... ” pronunciò con la voce spezzata dall’emozione.
“Bones” si limitò a pronunciare lui mentre si arrendeva all’abbraccio.
Angela, poco distante dalla scena, si asciugò gli occhi. Intorno alla coppia ritrovata si formò un cordone umano fatto di indulgenza, sgomento, rabbia, pena.
Sarebbe passato in qualche maniera... Tutto quel dolore prima o poi sarebbe scomparso.
Per Brenann il problema non era solo vedere il suo amore soffrire come un cucciolo dietro le sbarre di un canile. Se fosse stata bene avrebbe, forte del suo temperamento, fatto di tutto affinché quel momento terribile passasse senza lasciar troppe tracce dietro di sé. Ma come faceva ad aiutarlo se non si teneva in piedi?
Devo prendere provvedimenti, decise. La sua salute non poteva continuare a vacillare. Mentre accarezzava i capelli scuri dell’agente a lei più caro giurò a se stessa che si sarebbe, finalmente, fatta vedere.


Booth, per quanto doloroso, scelse di essere presente durante l’interrogatorio di Ian Emmerich.
Il tempo sembrava essersi rimesso ma verso est alcuni fulmini in lontananza minacciavano di tornare a guastare il cielo sereno.
Una volta dentro gli uffici dell’FBI, il cuore cominciò a galoppare tumultuosamente. L’acquazzone era giunto prima del previsto. Una finestra rimasta aperta per sbagliò lasciò entrare un turbine che spazzò via alcuni fascicoli.
Sentì le gambe molli mentre si avviava verso il vetro. Giunto davanti, restò immobile a guardare un suo collega mentre torchiava l’accusato. Era giusto così, si disse. Il pluriomicida Elliot Kelly lo aveva accusato di complicità. Il DNA di una donna ridotta in poltiglia era stata rinvenuta nella sua divisa ospedaliera. E, quello che era più mostruoso, ad agevolare gli omicidi era stato un agente speciale dell’FBI, qualcuno che avrebbe dovuto proteggere la società dalla feccia.
Emmerich non ammise le sue colpe, sembrava confuso e tanto, tanto stanco. I suoi carcerieri dovevano esserci andati giù pesanti, considerò Booth, sentendosi sempre più smarrito. Il volto era costellato da ecchimosi recenti. Serrò le mani a pugni cercando di non pensare alla gioia che l’uomo oltre lo specchio gli aveva procurato solo una manciata di ore prima. Faceva male, troppo male.
“Se non ce la fai perché ti torturi così?”. La voce di Bones giunse direttamente al suo cuore, malinconica e intrisa da un dolore dal quale difficilmente entrambi si sarebbero liberati.
“Pensavo fossi a casa”.
“Anch’io se è per questo”. Si guardarono a lungo. E quando le parole non furono più sufficienti per esprimere ciò che provavano, si strinsero l’uno all’altra.
“Bones, vai via da qui. Cerca di allontanarti da tutto questo schifo”.
“Sei tu che dovresti distanziartene”.
“Non ci riesco”, ammise, sentendosi dannatamente in colpa. Era di nuovo tra due fuochi. Da una parte l’amica, l’amante e collega. La sua donna ideale. La persona con la quale da tempo aveva deciso di invecchiare. Dall’altra... si girò verso il vetro che lo divideva da Ian Emmerich.
Dall’altra c’era colui che gli aveva fatto toccare il cielo e poi l’inferno. E le fiamme degli inferi ardevano ancora nel suo petto.
“Bones, io non sto bene” ammise senza osare guardarla.
“Me ne rendo conto.” Gli accarezzò il volto a pieno palmo: “Per quanto sia riluttante all’idea che la psicanalisi aiuti davvero le persone, ti consiglio di andare da un terapista.”
“Sì, penso che tu abbia ragione.”
“E ho deciso di vedere un dottore anch’io, proprio stamani mi sono recata a fare delle analisi.”
“Buon Dio, ti sei decisa finalmente”. Tornò ad abbracciarla. Sussurrò ad un soffio dall’orecchio parole di conforto:“Ne possiamo uscire, Bones, entrambi. Se siamo uniti possiamo farcela.”
“Vieni via con me, ora”. Accettò.
Booth l’accompagnò a casa. Una volta dentro si sentirono entrambi più protetti. Potevano fingere che esistesse solo quel luogo? Un microcosmo dove lasciare fuori tutti i drammi della loro esistenza. Un’isola felice. Per qualche attimo, Booth s’illuse che fosse davvero così. Che al mondo non ci fossero che loro.
Temperance uscì dal bagno con indosso una vestaglia color ciliegia con dei fiori stampati stile giapponese, vagamente retrò. Il pallore del suo volto confermava quanto lo stato della sua salute fosse instabile.
“Non hai mangiato niente”. Le ricordò, premuroso, accarezzandole un braccio con affetto.
“Se è per questo, nemmeno tu”. Nessuno di due si era ricordato che esisteva un rito chiamato cena. Fortunatamente, la domestica di Brennan aveva fatto scorta di preparati per pasta e insalate variopinte.
“Rilassati, ci penso io!”, le propose Booth, rendendosi subito operoso.
“Non devi cucinare per me”.
“Certo che devo”. E così fu. Una volta concluso il pasto si sentirono entrambi un pochino meglio, fosse altro per il Chianti rosso d’annata che circolava in corpo.
“Non devi per forza restare qui”, le disse la donna, toccandosi la gola come soleva fare ogni volta che accusava un nuovo attacco di acidità.
“Mi stai cacciando via?”.
“No di certo”. Non voleva affatto che lui se ne andasse... anzi. Più lo guardava e più aveva voglia di farlo restare. Magari nel mio letto. E di certo non per dormire! Capì che quegli istinti non erano razionali. Il desiderio stesso era sbagliato. Proveniva da una Temperance che non conosceva. O, meglio, che aveva conosciuto di recente. Ma sarebbe stato un errore, un grave errore, si ricordò.
Booth aveva passato l'inferno. Soffriva visibilmente per quanto successo a Ian. Di certo non morirà dalla voglia di fare sesso con una malaticcia e mezza brilla!, considerò, sentendosi all’improvviso insicura. E poi sorsero i dubbi di quell’altro genere. Quelli che la vedevano di nuovo rivale di un uomo. E se non l’avesse più voluta? Se il fatto di aver oltrepassato la barricata avesse per sempre diviso le loro strade? C’era un solo modo per saperlo... ma non era certa di volerlo sapere...
Sorseggiò un goccetto di vino per poi sbottare senza preavviso e chiedere: “Vuoi fare l’amore?”.
Booth per poco non cadde dalla sedia. La salivazione si azzerò completamente. E, malgrado tutto, l’eccitazione lo travolse.
“Certo... ma... ”.
“Ma?”.
“Sei sicura?”.
“Dovrei farla io questa domanda, Booth!”.
“Perché?”.
“Perché magari ora sei gay, solo gay”.
“No, Bones, in questo momento sono mille, anzi un milione di cose. Ma non gay. E se ci fossero dubbi in proposito sappi che ti trovo dannatamente attraente” sospirò, “Dio lo sa se ho voglia di fare l’amore con te”.
“Ma non te la senti di tradire Ian, giusto?”.
“Tradire Ian?”. Booth divenne paonazzo. “Secondo l’accusa se ne andava ad adescare povere madri di famiglia alle mie spalle e io tradisco lui?”.
“Ok, allora si può fare.” Senza preavviso si alzò dalla sedia piuttosto barcollante e lasciò scivolare la vestaglia che svelò il bel corpo nudo. Booth restò a bocca aperta.

1 commento:

Jivri'l ha detto...

Ma...ma...oddio!Povero Ian, rinchiuso e maltrattato e Booth che ora lo vuole tradire con Bones che sta pure aspettanto un figlio da lui!Io, sinceramente, non riesco a vedere la fine di questo tunnel, spero solo che si dimostri l'innocenza di Ian(perchè è innocente, vero?). A presto.