martedì 16 giugno 2009

Ogni singolo respiro, capitolo 5


“Sono in mezzo a due grandi consolari. Nudo. Le macchine sfrecciano via accanto a me. Potrebbero investirmi ma non succede. Io stesso vorrei finire sotto. Cerco di superare il cavalcavia ma niente. Continuo a trovarmi in questo spartitraffico incapace di avanzare o di retrocedere” il ricordo del sogno che stava raccontando lo gettò nel panico. Si toccò la fronte sudata. Proseguì: “E sto male. Malissimo. Che cavolo significa? Cosa mi sta succedendo, Sweets?” Booth voleva una risposta. Serviva a lui, serviva a Bones, serviva a risollevarlo dalla polvere.
Il giovane psicoterapeuta che aveva ascoltato il resoconto con attenzione, esaminò con i suoi occhi vispi l’amico-paziente.
“Mi creda quando le dico che questi sogni angosciosi non sono affatto una minaccia ma la risposta a quello che cerchiamo.”
“L’idea che mi sono fatto io è semplice. Sono nudo come un verme in mezzo al caos malgrado questo tento di ritrovare la strada. Un percorso che mi faccia tornare ad essere l’uomo che ero. Con tutti i vestiti addosso.”
“Mi parli dell’uomo che ha smarrito. Del Booth vestito” si appoggiò allo schienale.
Prima di ribattere, sospirò: “Il Booth vestito era un uomo che credeva ciecamente nel suo lavoro. Nella giustizia. Nell’amore per una donna.”
“E ora?”
“E adesso non lo so più. Mi sento esattamente come nel sogno. Sono in mezzo a due grandi strade che non si possono intersecare tra loro.”
“Pensa che scegliendo una strada o l’altra possa ritrovare i suoi vestiti?”
“Ho capito che i vestiti sono una metafora della mia identità sessuale. È questo che dovrei fare? Scegliere quale vestito indossare? Non ci riesco ora. Sono confuso. E non solo perché nel mio cuore sento di non sbagliare credendo nell’innocenza di Ian. Ma so anche che Bones ha bisogno del vecchio Booth. E, credimi quando dico che ne ho bisogno anch’io.”
“Purtroppo temo che il vecchio Booth, quello con i vestiti non ci sia più mi dispiace. E l’unico modo che hai per trovare quella strada di cui parli è accettando i tuoi nuovi vestiti.”
“Lo farai se sapessi dove sono!”
“In realtà lo sa. Lo sa, Booth. Solo che non lo vuole sapere.”
“Se questa psicoterapia deve aiutarmi ad accettare l’angoscia che mi porto dentro e imparare a conviverci è ora che cominci a fare effetto.” I Booth dai modi spicci era tornato. Il dialogo con il dottor Reid aveva lasciato degli strascichi pesanti e ora era sempre più difficile tornare indietro. Tornare ad essere come prima. Poteva cambiare pelle come gli consigliava Sweets? Poteva un uomo tutto d’un pezzo come lui arrivare a quel punto di rottura che gli avrebbe consentito di rimettersi in gioco?
“La psicoterapia la sta già aiutando. La sua paura nello scegliere la strada è fondata. Perché sarebbe un errore.”
“Cosa?”
“Scegliere una strada.”
“Mi stai dicendo che devo continuare a stare in mezzo?”
“Le certezze che la nutrivano in passato, tutta la corazza che la proteggeva, si sono frantumate dal momento che ha permesso a qualcuno del suo stesso sesso di amarla. In quel momento si è sentito se stesso.”
“Ora non vorrai venirmi a dire che sono sempre stato omosessuale o qualcosa del genere?”
“No. Certo è vero che il salto è stato grosso. Lo sarebbe stato in ogni caso, anche se si fosse trattato di una ragazza. La sua devozione totale a Brennan nonostante tutto non è mai stata messa in discussione.”
“E dunque?”
“Può scegliere di essere un uomo migliore per lei. Può riuscire a destabilizzare tutto se accetta di non scegliere la strada. Se smette di sentirti minacciato dal fatto di stare in mezzo.” Lo guardò fisso negli occhi, e, lasciando per un attimo le vesti di psicoterapeuta si rivolse a lui in tono confidenziale: “Booth, l’accettazione di se stessi è il passo più arduo da compiere. Se non arrivi a patti con questo non troverai più i tuoi vestiti.”
Il cercapersone vibrò facendolo saltare. “Devo andare.”
“A domani.”
“A domani” rispose fuggendo dalla stanza.

Il Jeffersonian pullulava di piccoli macabri resti umani. Una macchina a gran velocità scontrandosi con un muro di cemento, aveva dato modo che fossero rinvenute tutta una serie di parti scheletriche. Nonostante l’appuntamento fosse appena un ora dopo, Temperance stava lavorando a quelle ossa. Occhiali con lenti d’ingrandimento, sguardo severo, concentrazione al massimo.
“Cam, dille qualcosa.”
“Perché? Pensi davvero che se gli chiedessi di non abortire lei mi darebbe retta?” rispose l’altra sconsolata. Hodgins entrò a manetta. “Di chi state spettegolando? Chi è il povero Cristo sotto le vostre grinfie?” sembrava sorridente. Probabilmente il suo buon umore era dovuto a dei calliforidi che gli avevano fornito chissà quale illuminazione.
“Si tratta di un questione privata. Torna alle tue larve.” Il riccioluto le guardò di sbieco.
“Sono davvero un parassita.”
“Jack!”
“Va bene, recepito il messaggio. Vado dai miei simili.” Girò i tacchi voltandosi diretto verso il suo laboratorio personale.
Sospirando la dottoressa Sorayan si avvicinò a Brennan.
“Lascia stare. Per oggi posso continuare io.”
“Sono ossa, non c’è carne. Finisco e poi vado.”
“Brennan non devi... ”
“Cam, ora ti ci metti anche tu.” Sconsolata si tolse li occhiali. “Non avrei dovuto renderti partecipe. Pensate entrambe di saperne più di me?”
“Vogliamo solo che tu non ti penta del tuo gesto.”
“Perché dovrei pentirmi? È questo dialogo che è inopportuno. Anzi, sai cosa vi dico? Vado un po’ prima. Magari per l’ora di pranzo questa storia è già finita.” Angela la seguì verso lo spogliatoio. “Non vuoi più nemmeno me?” Temperance si voltò di scatto e la guardò con occhi tristi.
“Ma certo che ti voglio. Ma come amica che mi capisce e sta dalla mia parte.” La Montenegro comprese e decise di essere totalmente dalla sua parte. Se aveva scelto di andare incontro alla tempesta quanto meno le avrebbe concesso una scialuppa di salvataggio.
Una decina di minuti dopo l’FBI entrò a chiedere ragguagli sulle ossa del muro di cemento. Booth era reduce dalla terapia con Sweets. I suoi superiori, non del tutto convinti che fosse all’altezza di garantire il massimo della professionalità, gli avevano affiancato l’agente Perrotta, una donna in gamba di cui aveva stima. Quest’ultima sembrava sentirsi più a disagio di tutti gli altri di fronte ai disordini professionali ed emozionali del collega.
“Ciao Cam, dov’è Bones?” chiese l’uomo con tono pacato.
“Ecco io... ” il tono traballante della sua voce le rivelò che gli stava tenendo nascosto qualcosa.
“Che succede?” Perrotta guardò prima la donna poi il suo compagno con aria interrogativa.
“Ricordi quel tumore? Oggi la operano.”
“Tumore, operazione?!”
“Sì, gli è stato diagnosticato ieri l’altro. Pensavo te ne avesse parlato.”
“Bones è sotto i ferri ora?”
Cam ingoiò la saliva. Era certa che chiunque avesse potuto leggerle nel pensiero. Soprattutto lui.
“Seeley...”
“Perrotta, continua senza di me. Io devo andare” come se fosse stato morso da un animale velenoso e dovesse nel minor tempo possibile assumere l’antidoto, Booth scappò dal laboratorio lasciando dietro sé i volti esterrefatti dei restanti.
La mia Bones ha bisogno di me.
La mia Bones ha bisogno di me.
La mia Bones ha bisogno di me.

Solo a quello riusciva a pesare durante il tragitto verso la clinica. Doveva raggiungerla, esserle vicino quando si sarebbe ripresa! Le avrebbe assicurato che tutto sarebbe filato liscio.
Basta cazzate! Ora Bones ha bisogno di Booth... di Booth con tutti i suoi fottuti vestiti.
I ricordi del suo incubo ricorrente tornarono non a caso. La strada che conduceva verso l’ospedale era bloccata da un incidente piuttosto serio. A quel punto si ritrovò a pochi isolati dal luogo d’arrivo con due alternative: andare avanti in auto rischiando di non poterla salutare prima dell’intervento o parcheggiare il suv da una parte e proseguire a piedi? Parcheggiarla avrebbe significato abbandonarla ad un ciglio della strada e camminare in mezzo allo spartitraffico. Proprio come il Booth nudo dei suoi incubi. Ma lui aveva i suoi vestiti. Aveva la forza di volontà per andare incontro a quella strada, per stare sullo spartitraffico come gli aveva consigliato Sweets. E più i minuti si rincorrevano, più una voce interiore gli imponeva di sbrigarsi. Quella voce gli ricordava che Bones aveva bisogno di lei.

Il dottor Holden si avvicinò a Temperance porgendole cuffietta e divisa ospedaliera.
“Come si sente?”
“Come vuole che mi senta?” era un momento penoso. Angela teneva a freno le lacrime. Era una lotta impari. Anche Brennan stava per cedere agli ormoni. La guardò con intensità.
“Sai che se inizi a piangere poi io ti vengo dietro, vero?”
“Piccola, non lo fare. Non prima di averlo detto a Booth” singhiozzò.
“Ma non capisci? Questo lo spezzerebbe. E lo amo troppo per fargli altro male.”
“Glielo stai facendo uccidendo suo figlio.”
“Non è così. Non lo sto facendo” tirò su con il naso.
“L’anestesista è pronto, mi segua.” Holden s’inserì nel fitto dialogo. Non trascurò le lacrime che rigavano il viso della sua paziente. Prese dal taschino del camicie un fazzoletto di carta.
“Non serve che le dica che se ha cambiato idea... ”
“Assolutamente no.”

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